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Recensione

Fighting Fantasy Salani 2: La Rocca del Male
Edizione Adriano Salani Editore 2018
autore/i Steve Jackson
Recensore Dragan

Una Torre invecchiata male


L’inizio degli anni Ottanta non è eufemisticamente un brutto periodo per i librogame: Joe Dever fa il suo, prima ancora la coppia Ian Livingstone-Steve Jackson tira fuori quelli che diverranno i primi due classici indiscussi dell’epopea di Fighting Fantasy, Lo Stregone della Montagna Infuocata e, per l’appunto, La Rocca del Male.

Trent’anni esatti dopo la prima edizione italiana griffata EL, che aveva perso lo “Stregone” per strada e perciò scelse proprio il secondo volume per cominciare la sua serie ribattezzata “Dimensione Avventura”, la riproposizione dell’opera da parte di Magazzini Salani, nella traduzione pedissequa della nuova versione inglese targata Scholastic, dà, così, l’opportunità di scalare la Torre Nera anche a chi non ha mai messo le mani sull’esordio dei tascabili storici con fascetta rossa.

Vanno, nella valutazione dell’edizione, quindi citati e riproposti integralmente i punti salienti, sia positivi che negativi, delle nuove incarnazioni Scholastic-Salani già sviscerati in precedenti recensioni: copertina molto efficace alla vista, con la rappresentazione dei temibili Ganjees, e al tatto, con lussuosa lucidatura soft-touch, ma che tende a piegarsi e rovinarsi fin troppo facilmente; belle illustrazioni interne, anche se la prevalenza degli scuri sui chiari nei toni di grigio le appiattisce e le lascia intuire preferibili in ipotetica versione a colori (e in questo caso particolare, tra l’altro, le nuove tavole di un autore non accreditato almeno in Italia perdono malamente il confronto con quelle al tratto di Russ Nicholson di tre decenni prima).

E altrettanto ugualmente, è incomprensibile la scelta di inserire prologo e alcune regole all’inizio, regolamento e registro di gioco in coda, con i 400 paragrafi in mezzo; magnifica la nuova traduzione affidata ancora a un esperto della serie e del mezzo in generale come Efrem “Ego” Orizzonte, nome noto di Lgl che peraltro ha sovrinteso tutta l’operazione; confortante la correzione di alcune forzature o perfino bug clamorosi dell’edizione EL, su tutti l’assenza per mal traduzione della proverbiale boccetta di unguento del paragrafo 235, poi determinante per battere i Ganjees.

Anche la trama ha il sapore del già visto, considerando che all’uscita questo era il secondo librogame (su due) che offriva al lettore una missione di infiltrazione in una struttura fortificata misconosciuta e labirintica con un arcinemico da eliminare, compito per una persona sola che, oltretutto, è da discutere se più o meno difficile di una guerra totale tra eserciti in campo aperto.

Rispetto all’avventuriero senza nome che espugna la Montagna Infuocata, tuttavia, qui si viene quanto meno a sapere che, a tentare l’impresa, sarà il miglior allievo dell’anziano Gran Mago di Yore, ingaggiato da Re Salamon per far fuori a domicilio il tiranno stregone (ci risiamo) Balthus Dire, pronto a invadere la Valle dei Salici e quindi almeno più dinamico del suo predecessore Zagor.

Le contraddizioni nella trama non sono poche, e tutte sviscerate nelle analisi dell’opera in tutti questi anni, dall’ingresso ingenuo dalla porta principale, all’assenza di preparativi militari per la citata invasione, senza dimenticare che la Torre è costellata di una teoria di creature di ogni genere, quasi impareggiabile per assurdità, chiuse in stanze che aspettano solo l’arrivo del solito avventuriero. Più che una rocca del male, insomma, veramente una fortezza del caos come da titolo originario.

C’è odore di true path anche se, a dirla tutta, il percorso per raggiungere la sommità della Torre e il duello campale con Balthus non è uno e uno solo, esistono vie alternative più o meno lunghe e a variabile livello di difficoltà, da agevole a quasi impossibile.

La presenza della magia è il maggiore, ma forse l’unico, elemento di innovazione, con un punteggio ad hoc collegato al numero di incantesimi di cui si è in possesso e che si possono lanciare a proprio vantaggio o contro gli avversari di turno. Un gustoso antipasto di quella che, poi, sarà la dinamica perfezionata nella serie spin-off “Sortilegio”.

Procedendo alla valutazione, non si deve dimenticare, in premessa, che si tratta di un librogame che ha 35 anni sul groppone, e se li sente tutti. Inutile, quindi, applicare categorie anche severe di giudizio delle opere moderne a una storia classica per definizione. Nonostante la sua vetustà, il complesso degli accadimenti, dei luoghi, delle situazioni e dei personaggi della “Rocca” riesce comunque a risultare in buona parte apprezzabile. Alla fine della lettura, però, tolti gli appena citati e innegabili aspetti positivi, resta un dubbio e aleggia una diffusa sensazione di ingiusta disparità di trattamento.

Questa storia ha un protagonista caratterizzato in modo non troppo soddisfacente; un’ambientazione e un incidente scatenante tratteggiati appena; un dungeon classico, che più classico non si può, in cui si dipana; un bestiario variegatissimo ma in buona parte trito quando non movimentato da citazioni improbabili di varie epiche (Idra, Vello d’Oro, ci manca solo Autolico) o creature assurde (impagabili i Rotocefali del 316); una dinamica di gioco con bivi o trivi a scelta casuale senza neanche il minimo indizio razionale per indirizzarla; un antagonista di indiscutibile spessore e impatto, ma che pure può morire come un inetto se si azzecca una scelta che determina la fine con modalità abbastanza casuali se non illogiche, perfino se nel cammino si raccolgono gli indizi sul "tallone da killer" (cit.) del villain.

Sono sei pecche strutturali, e non di scarsa rilevanza. Ma se si trovano in queste pagine si inneggia al capolavoro di un maestro del librogame; se sono in un’opera di Stephen Thraves, si grida all’ennesimo scandalo di un pusillanime della letteratura a bivi. Qual è il motivo di questa discrepanza? Non lo sapremo mai.

Longevità 7: 

Tradizionalmente alta. Il caleidoscopio di stanze, nemici e insidie da affrontare, la possibilità di morire spesso e volentieri, i vincoli stretti del true path garantiscono, quando non impongono, la chance di rigiocare partite su partite.

Difficoltà 7: 

Meno stringente dello “Stregone”, con la magia o, spesso, gli oggetti dello zaino, a fare da comoda alternativa al saettare delle armi. Ma se si sceglie la via guerresca, al solito avere punteggi alti torna a essere determinante.

Giocabilità 6.5: 

A scartamento ridotto, per via di un’estrema sintesi delle regole che non strizza l’occhio alla trama, che è altrettanto all’osso, ma dà solo un’idea di estrema semplificazione tanto cara alla vecchia scuola: questi sono i paletti, questa la storia, gioca e sopravvivi, se ci riesci.

Chicca: 

Paragrafo 267. Va premesso subito, lo staff di Lgl non chiederà il pagamento dei diritti a Steve Jackson. Pur tuttavia, non appena avremo modo di intervistarlo, gli chiederemo come ha osato, e come gli è venuto in mente 35 anni fa, di far bere al candido allievo del Mago di Yor(e) un cocktail prelevato da un altro universo di un’altra epoca, chiaramente riconoscibile dalla descrizione (sebbene ne venga per fortuna sottaciuta la preparazione e oscurati gli ingredienti). Una bevanda temibile che non ha bisogno di presentazioni: al 267 si beve “El Cucador” (vedi Squilibrio per approfondire).

Totale 7: 

Da numero 2 della saga, merita il rispetto che si deve a un’opera ormai entrata nel canone della tradizione. Ragionando di testa oltre che di pancia, invece, un’opera fascinosa ma ricca di problemi che la rendono non così venerabile da raggiungere l’eccellenza. Pure nella considerazione che sono passati 35 anni dalla prima pubblicazione e il libro è stato solo blandamente modificato.