Questo Corto può essere letto in due modi diversi, anche se perfettamente congruenti tra di loro.
Sì, certo, la parte più evidente e superficiale è la storia dei goblin che hanno invaso Lucca nel 2026.
D’altra parte, però, questo Corto rivela una natura metaforica molto più complessa e diventa una critica feroce ma puntuale (e spaventosa, per quanto è lucida) di quello che è diventata Lucca negli ultimi anni. Per me è stata un’epifania, una sorta di madeleine proustiana che l’autore mi ha infilato a tradimento nel colon e da lì ha aperto via via tutti i chakra: una vera Illuminazione, insomma (un’Epifania, appunto).
Lucca non è più il ritrovo di intellettuali che parlano di fumetti com’era agli inizi (ancor prima degli inizi, visto che la prima manifestazione si tenne a Bordighera nel 1965, suscitando la divertita perplessità di Al Capp che satireggiò con una copertina su Times la furiosa passione con cui eminenti intellettuali discettavano di “semplici” fumetti), e nemmeno una mostra-mercato del fumetto (per anni “la” mostra-mercato del fumetto) ma un carnevale fuori stagione in cui giochi di ruolo e fumetti sono relegati a semplice contorno, essendo ormai le orde dei cosplayer i veri padroni delle strade di Lucca. In quest’ottica trovo assai ingeneroso il ritratto che l’autore fa di Traino Rinaldi/Rinaldo Traini, per molti anni patron della manifestazione (oltre che editore con la sua Comic Art) che, defenestrato a metà anni ’90, diede vita all’Expocartoon di Roma.
Oltretutto, il fatto che i fumetti siano quasi del tutto assenti (ma almeno relegati a un paragrafo che beneficia dell’evocativo numero 69) la dice lunga su come lo stesso autore percepisca una manifestazione che fu così gloriosa e culturalmente rilevante.
Lucca Goblins & Caves è Il Flauto Magico mozartiano di LGL: chi vuole fermarsi alla favoletta è libero di farlo, e comunque tendenzialmente rimarrà soddisfatto dal risultato, chi ha gli strumenti e la sensibilità per approfondire il discorso (e in questo caso non serve nemmeno essere Figli della Vedova) troverà delle corrispondenze innegabili.
Innanzitutto già la struttura in cui è ambientato il Corto è qualcosa di altamente simbolico: ci sono delle grotte (ognuna CHIUSA IN SE’ e NON COMUNICANTE CON LE ALTRE) i cui abitanti vivono quello che c’è all’interno con orgiastico trasporto (tranne che nella 69 su cui mi soffermerò con calma in seguito), del tutto inconsapevoli di quello che si trova all’esterno. Ebbene, non è così anche nella realtà? Per quei 4/5 giorni, a seconda dei gusti e degli interessi dei visitatori, sembra che al mondo non esista niente di più importante del fumetto, dei giochi di ruolo, del cinema d’animazione, e che questi settori godano di un successo e di introiti stratosferici, ma, alla fine della fiera (in senso letterale), tocca rassegnarsi al ritorno in una realtà in cui coi fumetti ormai non si campa più, e in cui gli altri hobby più redditizi sono ancora considerati materiale da sfigati o, forse peggio ancora, perdono la loro aura sacrale (“aurea”, la chiamerebbe l’autore) una volta dati in pasto a un pubblico “profano” che ne fa il mass-cult del momento per poi tornare a dedicarsi ad altre mode passeggere subito dopo.
A questo punto potrei perdermi nei rivoli delle citazioni e degli “omaggi” che fa l’autore, ma penso che valga la pena concentrarsi invece sul quadro generale di quello che ha voluto dirci, dei segnali d’allarme che sono alla base di questo Corto meraviglioso (anche perché la parodia del fattaccio di Casa Pound posso anche coglierla, per quanto Roberto Recchioni ne fosse estraneo, mentre gli “omaggi” agli animosi e supponenti designer di giochi di ruolo o ai giocatori di carte collezionabili francamente non li ho colti: chi diavolo è Nazzobelli?). Provo a cogliere il senso profondo del Corto, quindi, il suo nucleo.
Nessuno che non sia stato imbottigliato nelle strade di Lucca alle tre di pomeriggio a causa delle sfilate di Star Wars o altre baracconate assortite, impossibilitato a muoversi in un senso o nell’altro, può capire la portata polemica e sociale di questo Corto: e se fossi un portatore di handicap? O un anziano con problemi di deambulazione? O un qualsiasi cittadino con la necessità improrogabile di andare da qualche parte? O anche un semplice cagnolino da compagnia?
Come non vedere nei chiassosi goblin le orde che infestano i padiglioni delle fumetterie (evitando accuratamente di comprare alcunché), che mentre io sono lì concentrato a cercare qualche Alter Alter o Il Mago mancanti mi ficcano le loro spade di cartapesta nel costato, o mi vengono a sbattere addosso con le loro ali o corna posticce.
E che quando sono fuori dal Palazzo Ducale e sto parlando bel bello con Liberatore o Eleuteri Serpieri ci dicono se possiamo spostarci, ché devono farsi fare una foto.
I cosplayer, quindi. Anzi, LE cosplayer. Ok, talvolta l’occhio è gratificato da certi spettacoli e da tanta grazia (talaltra invece ne è pesantemente offeso, come sono le stesse eventuali accompagnatrici cosplayer a sottolineare impietose). Ed è innegabile che una donna, non necessariamente repressa e ancor meno necessariamente in fregola, con una maschera addosso e anche solo vagamente gratificata dall’apprezzamento degli astanti, dimostri una disponibilità inaspettata, quasi sfacciata. Quanti culi abbiamo toccato con il beneplacito, se non l’esplicito invito, delle loro padrone? E si potrebbe continuare su questa china: l’anonimato che dà un’identità fittizia a fare da viatico a una disponibilità che potrebbe nascondere una vita di frustrazioni, ma che più probabilmente è solo una maniera per appropriarsi di una disinibizione e di un ruolo dominante che nella vita reale non si possono mostrare.
Questo Corto mi ha fatto riflettere: qual è, veramente, il punto? Assecondando le derive esibizioniste di alcune cosplayer non staremmo forse facendo fare un salto indietro di secoli all’emancipazione femminile e al rispetto della donna? E chi è che veramente porta avanti il gioco: la cosplayer che ha il suo minuto di gioia e gratificazione o una società sempre più superficiale e materialista, a un sol passo dal diventare la “mignottocrazia” paventata da Guzzanti padre? Oltre al fatto che, siamo onesti, tette e culi li hanno tutte le donne e pure il maschio più libidinoso dovrebbe essere in grado di discernere qualcosa di bello e qualcosa di costruito ad arte. È bastata la comparsata della goblin grassoccia del paragrafo 28 per spingermi a fare queste considerazioni.
Da questo Corto traspare poi con le frequenti liti che scoppiano per un nonnulla il giusto timore per una situazione ormai ingestibile, proprio perché le istituzioni non hanno nessun interesse a gestirla! Come si va dicendo da anni: finché non ci scappa il morto, a Lucca non cambieranno niente. E non sto accusando nessuna fazione politica in particolare: figuriamoci se un sindaco di qualsiasi colore vorrà mai rinunciare alla sua gallina dalle uova d’oro, al suo “immenso giacimento petrolifero sotto il Padiglione Carducci”. Dalle testimonianze di lucchesi DOC, che per tutta la durata di Lucca Comics & Games se ne stanno tappati in casa, destra e sinistra si equivalgono nel trarre profitto dalla situazione, anche a livello di immagine, arrivando a “suggerire” i percorsi mirati ai visitatori (ricordate le freccette multicolore sparse per la cittadina?), percorsi che guarda caso sono proprio quelli in cui hanno sede le attività commerciali dei maggiorenti che hanno un peso (politico ed economico) maggiore…
Attenzione, però, che l’autore non lancia i suoi strali solo contro gli obiettivi più grossi (e assolutamente meritevoli di essere colpiti e, pia illusione, affondati), ma facendo sfoggio di una invidiabile onestà intellettuale mette alla berlina anche certi comportamenti diffusi tra le realtà più periferiche o satellitari che, sicuramente non senza consapevolezza, prendono parte a questo baraccone pur senza esserne parte integrante: la sala Ingellis/Goblinellis, ad esempio, diventa una metafora delle conferenze stampa nella mitica “area caffè” per i soli giornalisti, che come diceva Mike Bongiorno accorrono come mosche quando si tratta di mangiare gratis! Io posso parlarne solo dal punto di vista dei fumetti, ma è chiaro che la stessa forma mentis riguarda i rappresentanti (sempre affamati e assetati…) anche degli altri settori che a Lucca vengono trattati.
In controluce si potrebbe però quasi vedere in questo stato ti cose una rivalsa alla delirante abitudine invalsa da qualche anno per cui gli accrediti stampa da ritirare il giorno prima dell’inizio della fiera (dal giorno stesso si può fare la fila al Giglio) vanno richiesti in una specie di stazione di servizio in culo al mondo, dove TE LI STAMPANO SUL MOMENTO senza averli prodotti prima e non ti danno più nemmeno uno straccio di press kit.
Forse è anche per questo che l’autore ha inserito il video su Youtube (magari memore di una brutta esperienza occorsa all’artista e fumettista Massimo Giacon che rischiò di non riuscire a farsi dare un proiettore durante una mostra): come un corpo estraneo, un luogo “altro” che poco c’entra con la fiera, ma in cui dobbiamo rassegnarci ad andare per godere realmente del librogame/fiera (ovvero senza pagare l’ingresso a Lucca/per sapere le regole di combattimento nel Corto).
Il Corto non è esente da difetti: ed è giusto e sacrosanto così, perché la manifestazione di Lucca è altrettanto lontana dall’essere perfetta. Così a occhio posso intuire che la sovrapposizione dei disegni dei robot (a proposito: belli) nelle prime pagine, che ne rende ingiocabili due, sia una cosa voluta, così come la mappa orientata in una posizione che la rende meno godibile e funzionale (bastava solo scrivere i numeri verticalmente, no?). Tutti difetti dovuti al passaggio da Word a Pdf come nel caso conclamato e verificato dei paragrafi sballati de Il Palazzinaro (che qui viene riproposto con il paragrafo 25 attaccato al 24 e altre occorrenze varie), ovviamente: e con la presentazione della versione corretta del Corto ne abbiamo avuto la conferma. Ma il dubbio persiste e io credo che ci sia stata una volontà specifica da parte dell’autore, una qualche malizia con cui ha voluto appunto sottolineare queste pecche macroscopiche così come sono macroscopiche le pecche di Lucca. La stessa malizia che, nel ritrarre quella macchina per far soldi imperfetta che è la fiera lo ha portato a concepire degli errori tanto marchiani quanto palesemente metaforici.
Nel paragrafo 6 abbiamo un errore da prima elementare: “un stupido”. Ma siamo sicuri che, data la circostanza in cui ci troviamo non sia un errore voluto? In quel frangente il robot veste i panni del Savonarola supponente, del gradasso che si crede superiore, e per una volta diventa egli stesso vittima del nostro ludibrio di lettori. Un’altra sfaccettatura della onestà intellettuale dell’autore, insomma, che alla fin fine si pone sullo stesso livello dei “goblin” e non li guarda dall’alto al basso.
Il paragrafo 79 presenta poi un lapsus piuttosto comune, e altrettanto ridicolo: “aurea” invece di “aura”. Roba da sparare in testa all’autore (anche se questo almeno dimostra di usare le virgole correttamente), o forse semplicemente da schiaffeggiarlo bonariamente sulla guancia destra, se non fosse che “aurea” è un termine che inequivocabilmente rimanda all’oro e non credo che nemmeno questo sia un caso. Forse dietro questo apparente refuso si può cogliere tutta l’acrimonia verso il Mercante Lucchese, colui che pur disprezzando la fiera per il casino che porta in città non disdegna certo di trarne il massimo del profitto, ricorrendo a mezzucci criminali (qualche anno fa: fuori dal locale c’è un’insegna enorme “Panino e bibita a tot euro”; noi ci accomodiamo dentro e chiediamo quel menu, al che giunge l’infausta risposta: “’I cartello vale pe’ fori, se vi siete seduti vi fo i prezzi normali, grullacci”) e pompando a dismisura i prezzi dei beni più fondamentali
[qualche accorgimento da veterano che condividono volentieri con voi, eventuali fratelli di disgrazia:
l’acqua di Lucca è di ottima qualità, potete rifornirvi benissimo alle fontane o direttamente negli appartamenti se risiedete dentro le mura;
se possibile stabilite subito un rapporto preferenziale con un bar, magari dal giorno prima che inizi ufficialmente la fiera: avendovi già “schedato” difficilmente vi imporrà un prezzo maggiorato perché si ricorderà di voi e non vorrà fare la figura dello sciacallo, giocate anche voi sulla fidelizzazione del cliente piuttosto che sul guadagno immediato (nel 2016 ho colto chiaramente, né il gestore ha avuto alcun problema a dissimulare la cosa, che per me cliente fisso di quei giorni venivano date istruzioni di praticare prezzi diversi da quelli della massa indistinta dei clienti casuali – “a questi una lemonsoda falla 2,50”);
provate ad adottare questa strategia con un locale di cui non avete carpito la confidenza: quando vi proporrà il conto da pagare, cercate freneticamente nel portamonete e poi dichiarate contriti: “Che peccato, pensi che per 50/60/70/80/90 centesimi non riesco a darle i soldi giusti… vabbè, tenga pure questo pezzo da 100, non è un problema, no?”, al che il gestore vi risponderà “’Un è un problema, mi dia quello che ha… solo, mi raccomando, ’un diha in giro che un commerciante di Lucca le ha fatto uno sconto, ne va della nostra immagine…” (se usata con molta costanza questa tecnica vi permetterà di risparmiare un po’, ovviamente dovete calibrare il “peso” dei soldi in meno e della banconota grossa in base alle dimensioni dei singoli locali)]
In quest’ottica, la grotta “in leasing” al nostro arcinemico diventa la metafora, non so quanto involontaria, dei “temporary store” che per pochi giorni portano incassi d’oro nelle saccocce di quanti li affittano.
A proposito del “boss finale” del Corto: credo di aver capito il senso della sua identità. Rinaldo Traini non fu un “patron” così disprezzabile (stando ad alcuni autori di fumetti, la possibilità di avere un pass era subordinata alla simpatia che lui e la moglie avevano eventualmente sviluppato per il richiedente, ma potrebbe essere solo una diceria o forse mi confondo io con la successiva gestione di Expocartoon), però fu uno degli ultimi organizzatori privati, e oltretutto si era fatto veramente un grosso nome in giro per il mondo con la sua gestione del festival. Quindi, ecco creato un bersaglio perfetto da colpire per quelli che, com’è consolidata e spregevole abitudine italiana, volevano farsi amici del nuovo potente di turno attaccando quello vecchio in disarmo, che tanto non poteva più reagire. La satira dell’autore raggiungerebbe in questo caso un apice di pungente virulenza, non disgiunta da una disarmante autoconsapevolezza.
Muoia Sansone con tutti i Filistei, allora? Macché, l’autore è riuscito anche a trasformare noi stessi in cosplayer! Vedi il paragrafo 18: rifacendomi a un vecchio proverbio che ho sempre trovato stupido, se in un mondo di ciechi il guercio è re, allora in una fiera infestata di mostri l’unico normale diventa il fenomeno da baraccone! Anche qui non è stato possibile evitare di trovare delle corrispondenze con il mondo reale: anche l’anno scorso mentre ero fuori dal Palazzo Ducale in pausa da alcune conferenze mi stavo fumando bel bello la mia splendida pipa meerschaum a forma di drago e, come talvolta avviene, ho attirato le attenzioni dei passanti. Ma a onor del vero l’anno scorso è stato piacevole, perché mi ha attaccato bottone anche un professionista locale appassionato di pipe di schiuma con cui abbiamo intrecciato un bello scambio di opinioni (è bello sfoggiare con generazioni precedenti alla mia un ragionamento pre-informatico, per cui anche se non fumavo con un guanto di filo come la norma imporrebbe con le meerschaum, non rovinavo certo la pipa: trattandosi di una cosa materiale, non siamo di fronte a una serie di 0 e 1 in cui una piccola imprecisione rovinerebbe l’insieme!).
Mi perdonerà Roland Barthes, che sosteneva che la categoria da lui stesso teorizzata della comunicazione “fàtica” (cioè il “messaggio” di un’opera) non deve essere preponderante, ma non riesco veramente a ignorarla nel giudicare questo meraviglioso Corto. Anche se l’autore forse (anzi, probabilmente) non voleva nemmeno “dire” nulla di quello che ci ho letto io. Ma d’altra parte gli artisti rielaborano sempre e comunque gli stimoli esterni a cui sono sottoposti, e se spesso sono degli artefici che creano qualcosa di progressivamente più nuovo e diverso a partire da cose già sedimentate, altrettanto spesso sono i megafoni anche involontari di una temperie culturale, il riflesso di una condizione esistenziale condivisa, la grancassa di stimoli e situazioni che come si suol dire “sono nell’aria”.
Purtroppo ho riscontrato nell’autore un pessimismo addirittura più marcato del mio, perché per quanto mi sia sforzato, non ho trovato alcun rimando a Collezionando, la Lucca primaverile cosplayer-free. Una terra favoleggiata, un Eden perduto, una boccata d’aria, un sorso di toccasana che però l’autore non ha contemplato, preso evidentemente dal suo più che giustificato pessimismo (di cui il paragrafo 69 è una cartina di tornasole), un pessimismo che alla fine è riuscito a trasmettere anche a me.
Confesso che dopo aver letto il Corto (che io non ho solo “letto”, ma ho proprio vissuto) mi sono venuti dei dubbi sulla possibilità di tornare anche quest’anno a Lucca. Ma se facessi così, allora i goblin avrebbero vinto veramente! All’autore vanno la mia stima e il mio ringraziamento, oltre che un messaggio di speranza: “Non arrenderti, Fratello. Noi siamo così pochi, e loro sono così tanti.”
Il mondo che ha saputo evocare con la lente deformante della satira è proprio realistico, terribilmente realistico: bisogna diventare dei robot insensibili e spietati per farsi largo nelle strade di una Lucca assolutamente irriconoscibile rispetto a quelle degli anni ’80 e ’90 o dei primi 2000. Peccato che noi non possiamo farci largo sparando sulla folla.
voto inviato a Babacampione
Questa è stata più o meno la mia reazione quando ho aperto il file, aspettandomi il peggio. E invece l'idea merita. Solo che è oltremodo penalizzata dalla partecipazione al concorso.
Mi spiego meglio: visto che si capisce subito che non ci troviamo di fronte a un nerd o a un malvagio, l'unica opzione rimasta era quella del robot. Per cui appena capito che la vicenda si svolge
cosa abbastanza chiara fin dalla prima lettura, da lì a pensare a una
sonda, nanomacchina o simili
il passo è stato davvero breve. Già durante la prima lettura mi son detto
Vedrai che alla fine è un qualcosa di curativo che "invade" il corpo di un paziente malato "invaso" a sua volta da qualcosa di grave, magari cancro, che ci sta sempre bene e fa colpo.
E così è stato (a parte il dettaglio del
bambino, inserito non so se per aggiungere shock value o se per qualche collegamento con vita vissuta/fatti di cronaca),
facendo venir meno il senso stesso del racconto, ossia spaesare il lettore lasciandolo nel dubbio fino all'ultimo su COSA stia effettivamente leggendo e su come comportarsi per ottenere il finale "migliore" (a parte muoversi a casaccio).
C'era anche un'altra ipotesi
che il protagonista fosse una cellula tumorale "maligna" che invadeva il corpo dell'ospite
Sarebbe stato coraggioso anche se probabilmente eccessivo; shock value per shock value, almeno mi avrebbe colpito di più.
Non solo: l'esigenza di uniformarsi a un tema ha costretto l'autore a inserire nel paragrafo risolutivo numero
un accenno di spiegone su cosa siamo, su cosa facciamo, ancora una volta vanificando il senso di un racconto di questo tipo, che si deve basare necessariamente sul non detto per non diventare ciò che mostra l'immagine in cima:
una pippa da autore che ne sa.
Eppure come ho detto l'idea è buona. Perfino lo stile indigeribile che associa a ogni parola almeno un aggettivo si rivela efficace visto che a pensare certe cose è una macchina (in realtà non credo fosse voluto e ci sono certi periodi che sembrano una presa per i fondelli da quanto sono contorti, ma è il risultato che conta).
Per cui Firenze (canzone triste) è una buona idea che riesce a mettere il lettore nei panni di una macchina e le cui scelte, apparentemente casuali, sono invece dettate da una logica di fondo che fa piacere scoprire.
Peccato che per le ragioni anzidette l'abbia scoperta troppo presto.
Voto inviato ad Aloona.
PS: aggiungo un dettaglio dettato dal mio gusto che NON andrà a influire sul giudizio, dato che non ho la presunzione di pensare che mie fisse personali possano costituire un giudizio oggettivo (che ho cercato di dare a ogni racconto che ho giudicato finora, analizzandolo per i suoi meriti e demeriti più evidenti oltre che in base a quanto mi sia piaciuto, com'è ovvio e naturale).
NON SOPPORTO l'abuso di aggettivi, né nei libri né nei librigame. Non lo sopporto in Dever, non lo sopporto in Green e in Morris, non lo sopporto ovviamente neppure qui. Quando si scrive un'opera di questo tipo il rischio di passare il confine tra il profondo e il pacchiano è dietro l'angolo e una scelta di stile del genere fa cadere il racconto più volte nella seconda categoria. L'esperienza insegna che quando l'argomento affrontato è pesante è consigliabile usare uno stile leggero e viceversa: è il contrasto che tiene alta l'attenzione di un lettore comunque lo si voglia inserire.
Paradossalmente uno stile del genere sarebbe stato più adatto a un racconto sugli
perché sarebbe stato in contrasto con la banalità del tema trattato - mostrando così l'assoluta assenza di banalità in qualcosa che a prima vista sembra esserne pieno. In questo caso invece il mix stile aulico / tema "pesante" non mi ha sorpreso né meravigliato, solo infastidito. A parte la citazione di Elio che mi ha regalato quel sorriso necessario per completare la lettura.