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La Riscossa della "pecora nera"
Uno “scugnizzo” yankee di una quindicina d’anni, proveniente da una scuola storica ma in decadenza a una quarantina di chilometri da Londra, raggiunge il 221 B di Baker Street, dribbla la signora Hudson, sfugge a Watson e si presenta dinanzi al più famoso investigatore del mondo a esporre il suo caso da risolvere. Il secondo volume della storica serie Sherlock Holmes, intitolato “Lo smeraldo del Fiume Nero”, comincia esattamente così, con questa sospensione dell’incredulità richiesta al lettore che non sarà neanche la più esosa, come vedremo.
Come si sarà già potuto intuire si tratta di un volume a sé stante rispetto agli altri sette, non a caso frutto dell’inventiva di un autore, Peter Ryan, diverso dai principali Lientz e Creighton e del quale, peraltro, come d’altronde degli altri due, non si conosce assolutamente alcun dettaglio. La prima e fondamentale differenza è data proprio dal protagonista: investigatore in erba come gli altri ma di età decisamente inferiore. Tale che lo porta a ricordare molto i componenti della “banda di ragazzini scatenati che ficcano il naso ovunque ci sia qualcosa di losco” della serie di taglio più infantile Detectives Club.
Eppure le vicende narrate in questo libro sono tutt’altro che giovanilistiche, e il “baby” investigatore, peraltro, non avrà Holmes fianco al fianco in vari check ma lo vedrà soltanto due volte: per spiegargli il caso in uno sconfinato prologo, e per darne la soluzione alla fine. Il re dei detective, comunque, prende in simpatia il ragazzino e non mancherà di farsi sentire con telegrammi e missive corredate di ritagli di giornale da recuperare all’ufficio postale a caro prezzo o fingendo povertà.
La trama diventa subito fitta. Lo smeraldo del titolo, di proprietà della munifica famiglia Avery, portato a scuola dal rampollo Mark per scommessa, è stato rubato tra le mura della prestigiosa Belton School, ora piena di debiti, con mensa e insegnamento decisamente in ribasso e le luci spente presto la sera per risparmiare. L’accusa del giovane proprietario travolge subito il protagonista, David Rogers, americano, povero in canna e soprattutto compagno di stanza del derubato, che con lui aveva condiviso i segreti della preziosa gemma. Ma il protagonista ladro non è e così la cerchia dei sospettati si allarga subito agli altri componenti della “Società dei Cinque”, tutti allievi del collegio, amici ma non troppo anzi, ben propensi a botte e ricatti tra loro.
Il bullo Oxy Oxfield, l’aristocratico Richard Bingley e il sorcino Muskrat Rafferty, figlio di un delinquente conclamato noto perfino a Holmes, sono i primi indiziati. Ben presto si aggiunge al novero anche il direttore della scuola, Karl Mueller. Ognuno di questi, come viene descritto già nelle prime battute, sembra avere torbidi segreti, motivi di risentimento verso Avery o, comunque, un movente più o meno valido, nonché, soprattutto, ha avuto l’opportunità di mettere le mani sul monile.
E qui comincia il bello dell’avventura interattiva, molto più “vera” rispetto a tanti, quotati volumi del genere. Il giovane David dovrà, infatti, ben presto decidere su quale pista concentrare i propri sforzi di indagine, che saranno di tutto rispetto. Vengono infatti messe in atto intrusioni furtive in loschi covi, inseguimenti tra carrozze, ascolti fraudolenti di conversazioni compromettenti, effrazioni in uffici della scuola, aperture truffaldine di cassaforte, lotte corpo a corpo tra coetanei e anche con adulti privi di scrupoli. Il ragazzo potrebbe essere perfino catturato, legato a una sedia e pestato senza pietà.
In questo marasma, scegliere una pista piuttosto che un’altra, scappare a Londra per seguire il proprio uomo oppure starsene a Belton Village per averne “puntato” un altro, o ancora indugiare nei misteriosi boschi attorno alla scuola per ricostruire furtive vicende di un ulteriore sospettato, costituiscono scelte radicali che porteranno inevitabilmente a perdersi le altre parti di avventura per viverne una.
Si approcceranno, così, diverse sottotrame, tutte descritte con una prosa pimpante e scorrevole. Un triangolo amoroso con fuga romantica? Un traffico di oggetti rubati agli studenti? Un parente imbarazzante tenuto nascosto da un insospettabile? E finalmente, una connection internazionale che cerca di trarre 15 mila sterline dallo smeraldo che, fino a quel punto, ha fatto guadagnare solo guai? È la magia del libro interattivo “vero”, valore aggiunto che non può essere dato per scontato in tutte le opere moderne, figuriamoci in una serie classica che in altri numeri brilla, piuttosto, per una discutibile linearità.
Tutto magnifico, allora? Purtroppo no. Quale che sia la scelta nella preda da mettere sotto tiro, presto o tardi nella vicenda faranno irruzione gli indios del Fiume Nero, legittimi proprietari dello smeraldo, paracadutati di peso “nella confortevole atmosfera dei salotti più esclusivi” della Londra vittoriana con un’operazione che, per quanto ci si possa appellare alla pazienza e all’accettazione del lettore, comunque la si giri assume i contorni di una malriuscita barzelletta.
Reduci dalla traversata dal Sudamerica all’Inghilterra, i lucidissimi indios scrutano di nascosto Rogers, capiscono che sta indagando per recuperare la gemma, si assicurano che è il “buono” della vicenda, gli recapitano un messaggio eloquente, cercano di avvelenarlo a frecciate e alla fine lo mettono alle strette. “Devi risolvere il mistero in questo preciso momento se vuoi salvare Mark e te stesso”, si legge nella descrizione dell’agguato decisivo: un ammonimento emozionante foriero di una responsabilità schiacciante che, a suo tempo, da bambino fece saltare sulla sedia chi scrive.
Ma allora come ora, alla luce di queste attese, è incommensurabile la delusione nello scoprire che, qualsiasi nome si faccia agli indigeni, si otterrà comunque lo stesso risultato: gli indios vanno via (per sempre) e restituiscono la libertà di andare a sottoporsi al check, quello vero, a Baker Street. Nessuna conseguenza positiva se si azzecca qui il nome del colpevole, nessun malus se si spara invece l’ipotesi perfino più balzana. Era una splendida occasione per pensare a una punizione, da parte dei selvaggi, del presunto ladro indicato, condannando quindi un innocente o il vero colpevole a una morte atroce che avrebbe variato in peggio o in meglio il finale comunque fosse poi andata da Holmes. Macché.
E il guaio deve ancora venire. Il buco di funzionamento e di trama maggiore, che compromette quasi integralmente una valutazione dell’opera che, altrimenti, poteva senz’altro entrare nell’eccellenza, arriva proprio alla fine, come un colpo di coda velenoso. Dinanzi a Holmes ci si può francamente presentare con una messe di indizi (singolarità che verrà sviscerata più avanti). Il primo filtro riguarda chi è il colpevole, e lo si può risolvere bene, male o malissimo, continuando comunque la partita.
Segue poi la modalità di esecuzione del colpo, e qui non si scappa, vengono richiesti due indizi in coppia. Uno si acquisisce all’inizio con mero lancio dadi, l’altro solo seguendo una determinata pista tra le tante di cui si parlava prima, paradossalmente non quella vincente! Nell’uno o nell’altro caso cambia comunque solo la reazione di Holmes e si arriva al terzo check, quello del movente. Che può essere dimostrato scegliendo tra quattro indizi, ma gli altrettanti bivi rimandano solo a due diversi paragrafi.
Qualsiasi sia la scelta, comunque, perfino se si hanno tutti e quattro gli indizi, si arriverà a un paragrafo di delusione da parte di Holmes e smantellamento di tutta l’indagine, con la sola possibilità offerta di sentire la sua spiegazione o ricominciare da capo, per ritrovarsi comunque allo stesso finale. È questo il gigantesco bug di questo libro: semplicemente, non si può risolvere il caso, qualsiasi mossa si faccia o percorso si segua, perfino presentandosi a Holmes con tutte le prove valide. E dici niente.
Peccato perché la dinamica di gioco funziona. I lanci di dado sono molti, soprattutto nel gusto dei lettori moderni, ma d’altronde non è lecito aspettarsi diversamente da una serie basata sui lanci di dado! Ma c’è un pregio, le soglie da raggiungere sono relativamente basse, rendendo quindi meno uggiosa la prosecuzione del gioco, e inoltre gli snodi decisivi sono quasi tutti affidati alla scelta del lettore. E con le abilità oggetto dei lanci Ryan gioca parecchio: botte, incidenti o altro non di rado portano a ridurre il già risicato (causa regolamento assurdo) bonus da aggiungere ai suddetti dadi. Rispetto agli altri libri, c’è un grande utilizzo del denaro che finalmente assume un senso, mentre resta vacua l’utilità dell’inventario di oggetti.
Discorso a parte merita il già citato florilegio di indizi. Con la possibilità di barrare le 26 lettere dell’alfabeto inglese e i loro rispettivi doppi, si arriva a 52 prove disseminate nell’avventura; 51 a essere esatti, non c’è da nessuna parte l’Indizio UU. Già 8 vengono piazzati nel corpulento prologo, senza quindi nessuno sforzo investigativo se non leggere. Ebbene, su tutta questa mole di informazioni necessarie, quelle che vengono richieste nei vari check necessari per andare avanti sono appena 17: esattamente un terzo.
Il 66% degli indizi, insomma, si può considerare inutile. Recensori precedenti, per quest’aspetto indulgenti con l’autore, l’hanno considerata finezza letteraria che mira a riprodurre il modo di ragionare di un teenager curioso, per il quale tutto sarebbe importante così da considerare tutto indizio. Possibile, ma tutto sommato non sufficiente a giustificare quello che in fin dei conti è solo un orpello che spezza la lettura a ogni piè sospinto e rende ancor più difficili le cose che sono, di per sé, già abbastanza complesse.
Altalenante, per finire, l’apparato illustrativo, da sempre punto debole della serie Holmes. Il pur bravo Daniel Horne è svogliato come al solito negli interni salvo qualche eccezione: il ritratto del malfattore Ken Rafferty, la soggettiva dello sgherro Lomax pronto a pestare il ragazzino, sono immagini quasi iconiche. Altre, pure ben fatte graficamente, sembrano messe lì per caso e senza legami con la narrazione. Qualcun’altra ancora, infine, è poco più di uno schizzo mediocre.
Horne è anche autore della copertina che, in fondo, è specchio che restituisce l’immagine più fedele di quest’opera: ha un solo difetto, ma gigantesco. Quale? Spoilera, sostanzialmente, l’intera vicenda.
Longevità 7:
Scegliere la pista giusta potrebbe essere facile, ma non scontato. E come non appassionarsi alle altre vicende dei comprimari, ognuno con i suoi misteri inconfessabili e le proprie mosse disoneste? Specialmente se non si indovina subito, verrà voglia di un’altra partita. Solo il finale non cambia in ogni caso, ahimè.
Difficoltà 10:
Il voto autentico sarebbe 6,5. Sciogliere la vicenda è tutt’altro che impossibile, cavarsela ai dadi anche, ammonticchiare, tra i tanti, gli indizi giusti di nuovo fattibile, sebbene neanche banale. Lo scoglio finale e insuperabile è, tuttavia, quello di Holmes, che fa schizzare la difficoltà al massimo, ossia impossibile, o forse più.
Giocabilità 6:
La media tra l’8 del sistema lanci-bivi-indizi buono così come congegnato e il 4 della topica finale dalla risoluzione impossibile. In nessun caso potrebbe risultare credibile l’idea che sia stato fatto apposta “perché un ragazzino non può eguagliare Holmes”. Si tratta di un errore, punto.
Chicca:
Il direttore Mueller gode di talmente tanta simpatia che i suoi alunni lo hanno affettuosamente definito “Sederediferro”, racconta David nel lungo prologo. “Capisco” è la laconica quanto memorabile risposta di Holmes, tra le migliori dell’intera serie.
Totale 6:
Il buco di funzionamento, più volte evidenziato, sarebbe da bocciatura senza appello. Ma la storia è così divertente, l’atmosfera alla Conan Doyle così centrata, l’interattività così alta, la trama così ricca, che non si può scendere sotto la sufficienza. Quest’opera merita di essere riscoperta e portata a una fama molto, molto migliore di quella di “pecora nera della serie Holmes” che da sempre deve scontare.
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