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Livingstone torna e ci parla di sé
Il classico avventuriero senza nome, cacciatore di tesori perennemente in bolletta, vaga nella solita, sordida città, di nome Chalice, alla ricerca di nuove peripezie. Ha cibo a sufficienza per 10 pasti nel suo zaino, ma le leccornie non devono essere di suo gradimento visto che viene presentato affamato e con lo stomaco vuoto mentre si arrabatta a cenare con pane raffermo e pomodori marci trovati nella spazzatura. Possiede, anche, una mappa del tesoro, probabilmente fasulla ma chi può dirlo, che due gonzi raggirati gli hanno lasciato su un piatto d’argento.
Comincia così, con una bella prosa, un po’ di cliché di genere e un incomprensibile bug gastronomico, Il porto della morte, opera che segna il ritorno di Ian Livingstone alle prese con un librogame e la rinascita dei Fighting Fantasy in generale, secondo volume nonché primo inedito della rinnovata edizione Scholastic portata in Italia da Magazzini Salani.
La mappa consente di raggiungere uno scrigno di ferro pieno di amuleti d’oro, celato all’interno della Rupe del Teschio, e già dal prologo viene svelata la via corretta per arrivarci (e di conseguenza, anche quella per uscirne vivi). Scatta, così, una missione costellata dal consueto incontro livingstoniano con la più strampalata e assurda teoria di personaggi buoni e (per lo più) cattivi, esemplificata in modo mirabile dagli alfieri dell’assurdo di quest’avventura: i folletti blu costituiti da una mega testa con zampette e mani che stringono famelici coltello e forchetta.
Una ricerca destinata, purtuttavia, a concludersi con un nulla di fatto, perché il tesoro agognato è già stato trovato e portato via. E qui si arriva alla seconda parte dell’avventura, quando si viene a scoprire che ben altra minaccia incombe dalle parti di Allansia, classico scenario dell’autore che non fa mancare camei riconoscibili dai fan più competenti e storici della serie.
La Torre di Yaztromo è, difatti, infestata da un rampicante maligno che preconizza l’ormai prossimo avvento di Zanbar Bone: ma sì, proprio quello del mitico “La città dei ladri” del 1983, tradotto in Italia da Lgl, che ancora una volta costituisce il vero villain della vicenda. Compito dell’avventuriero sarà avvertire il mago e porre rimedio, in particolare recuperando l’unico incantatore capace di distruggerlo, Nicodemus, altro ritorno da quella prima storia, e il suo artefatto più potente, il leggendario Anello dei Serpenti Infuocati.
Missione ben più gravosa, quest’ultima, che è possibile assolvere con successo approcciando con prudenza le torbide atmosfere di Port Blacksand, la città dei ladri o il porto della morte, chiamatelo come volete, che dà il titolo all’opera. Meglio non rivelare lo snodo decisivo per il recupero dell’artefatto, davvero pazzesco. Quello che si può dire senza timore di svelare nulla di nuovo è che in questo passaggio il true path diventa davvero rigidissimo e la via giusta è una e una sola.
Se si esce indenni da questa maxi tagliola, non resta che affrontare la battaglia finale, porre fine alle velleità di Zanbar e godersi la squisita ospitalità di Yaztromo, già con il pensiero rivolto, però, a nuove avventure.
Qualche rilievo. Un difetto già snocciolato nello “Stregone” d’esordio e che ricompare anche qui è il posizionamento immotivato del regolamento di gioco a fine volume, dopo il prologo e la sezione dei paragrafi numerati, che costringe a strambi salti di pagina: un errore di impostazione dell’edizione originale britannica, cui l’editore italiano non ha potuto, fin qui, porre rimedio.
Nella trama stride un po’ la presenza, pure non inedita, a metà avventura, di una ninja in un’ambientazione smaccatamente fantasy, e aumenta lo straniamento il clamoroso true path inserito in questo punto, che in fondo non nuoce poi troppo spoilerare: puoi scegliere se andare o meno con la misteriosa Hakasan, ma se non lo fai muori inevitabilmente dopo qualche manciata di bivi.
Lascia perplessi anche l’incontro fortuito con il marmista Horace, precipitato e schiacciato da un cubo di marmo: i due ci parlano e lo confortano come possibile, lasciandolo comunque agonizzante sotto il masso, finché è vivo, dopodiché si affrettano a usare un ramo come leva (sul marmo?) per tirarlo fuori e seppellirlo, non appena ha tirato le cuoia.
Alcuni difetti di gioco, nati da brani mal scritti o tradotti, consentono al giocatore più smaliziato di fare un po’ il ciufolo che vuole in alcuni passaggi: quando qualche oggetto trovato permette di “aggiungere” punti di Abilità non specifica se si può, così, superare la soglia massima (come autorizzerebbe a credere il verbo usato) o meno (come sembra alludere il regolamento).
L’equivoco è già al paragrafo 1: con quel misero pasto di pane e pomodori presi dai rifiuti, si può “aggiungere”, appunto, 1 alla propria Resistenza, che, tuttavia, come ovvio a inizio avventura è già al massimo, contribuendo ad aumentare anche la confusione. Ecco perché, con un po’ di fortuna e capacità, utilizzando il primo criterio meno restrittivo, di “aggiunta” in “aggiunta” si può abbastanza agilmente condurre la propria statistica di Abilità a livelli che garantiscono quasi con certezza il successo in combattimento, perfino con lanci di dado del tutto sbilanciati a favore del nemico, rendendo il finale dell’avventura un po’ scontato.
C’è poi la vicenda dello Zaino, di cui si relazionerà più avanti essendo questa senza dubbio alcuno l’autentica chicca (ahimè tragicomica) di questa storia.
In conclusione, un Fighting Fantasy con tutti i crismi: ambientazione apprezzabile soprattutto per gli adepti che potranno riconoscere le numerose citazioni, una storia spigolosa ma credibile, un motore di gioco senza troppe complicazioni, esplora, mena e gioca. Qualche difetto di realizzazione, che poteva essere evitato con una curatela migliore dall’autore in giù, non sporca una valutazione che, a conti fatti, deve essere comunque positiva.
Longevità 7:
Nonostante la presenza di snodi a mappa la storia è sostanzialmente lineare, con un percorso definitivo e inevitabile che rende le possibili partite successive alla prima passibili di esplorare solo alcuni tratti reconditi non visitati in precedenza, senza aggiungere nulla di particolarmente nuovo.
Difficoltà 6.5:
Il noto e collaudato sistema rende snelli i combattimenti, mentre la regola assurda dello zaino fa diventare facilissima la gestione degli oggetti. Gli aumenti delle capacità consentono, poi, un finale sul velluto.
Giocabilità 7.5:
Non ci sono asperità particolari nell’esplorare il mondo e comprendere la trama, buona libertà di scelta pur nel citato percorso obbligato e meccanismi di gioco sostanzialmente di ottimo livello consentono di valutare l’opera come molto apprezzabile.
Chicca:
Si è sempre dibattuto sul sistema di gioco “easy” dei Ff/Da che lascia autonomia e chiede senso di responsabilità e fair play al giocatore rispetto per esempio a un motore più dettagliato, ma ingessato, à la Dever. Epperò qui si esagera con le libertà. Lo zaino, viene detto in avvio, potrà essere “riempito con molti altri oggetti” rispetto a quelli di partenza, che sono già 11 al paragrafo 1, un bel malloppo. Ma a leggere e rileggere le norme, non c’è limite massimo e allora, applicando alla lettera, sotto con il saccheggio. Chi scrive ha concluso l’avventura con una quarantina di oggetti nell’inventario, una zavorra che neanche il proverbiale gonnellino di Eta Beta avrebbe mai potuto contenere.
Totale 7:
Un bel ritorno con un’opera inedita per festeggiare la nuova ristampa. Il livello è distante dai grandi classici della serie, ma può essere considerato un bell’esempio di librogame moderno con strizzatine d’occhio al glorioso passato.
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