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Una scorpacciata a metà di fantasy alla francese
Era un oggetto misterioso di molte collezioni, questo “La nascita del male”, uno degli ultimi librogame importati in Italia dalla EL, stavolta dalla Francia, quasi al termine della gloriosa fase storica (1993): posseduto da pochi, giocato da ancora meno, compreso e apprezzato quasi da nessuno.
In effetti, a osservarlo di primo acchito non è un oggetto attraente, per almeno tre elementi connessi tra loro: uno, i titoli ondivaghi, sia quello della serie, “leggende e malefici” che fa pensare a una omnibus e invece resterà monocapitolo, sia quello del libro, che si assume su di sé fin troppe responsabilità (promette di spiegare addirittura come si è originato il male nel mondo); due, il contrasto pacchiano tra il rosa acceso della fascetta e il verde acqua del fondale oceanico di sfondo che genera repulsione; tre, la ridicolaggine della creatura, pur mostruosa, ritratta in copertina mentre cerca di mangiarsi il misterioso uomo-pesce che si scoprirà essere il protagonista.
Su questo è necessario risolvere subito un dubbio che attanagliava chi scrive da anni: che cos’è quel “coso” dentato? Trattasi di un temibile Woeuk, descritto come mostro “metà alga, metà pesce”, munito di una “enorme bocca contornata da una criniera verde”, che è anche “impossibile da uccidere” perché “si rigenera istantaneamente”.
Un nemico neanche così banale da affrontare in gioco, a dirla tutta, ma assolutamente disprezzabile come elemento-esca per potenziali acquirenti in una cover dove altro che il male! Piuttosto sembra di dover affrontare una gigante e agguerrita Morositas con tutto l’effetto (tragi)comico che ne consegue. Vizio imputabile, peraltro, all’edizione originale Hachette perché nel ’93 a Trieste era già epoca di low cost e rifare una copertina impresentabile sarebbe stata nient’altro che velleità.
Anche approcciando la gioco-lettura ci sono elementi che suscitano ritrosia. Una storia subito confusionaria, anteprima di un’intera serie, in cui viene spiattellata in quattro e quattr’otto una messe di protagonisti e nozioni che solo di striscio verranno utili in questa vicenda. I cliché non mancano come in ogni buon fantasy: tempi antichi, quattro figli dell’Universo (tra l’altro due dei quali quasi omonimi, Meleanor e Menelar, viva la fantasia), un demonio nero, una lunga guerra, una profezia eccetera.
Vinto qualche sbadiglio e superate anche le insidie del sistema di gioco di cui si dirà in seguito, la trama, invece, acquista piacevolezza e mostra ben riconoscibili gli elementi che rendono apprezzabili a molti le versioni italiane delle opere di Headline: una bella ricchezza di descrizioni, un certo sarcasmo, un’interattività estremizzata di passaggi banali che nasconde spesso bene la linearità degli snodi principali, i toni epici, il moralismo, ma anche la chance di essere immorali se si vuole.
Il lettore interpreta Fanwyr, giovane principe della stirpe Udor che abita (manco a dirlo) la città di Udoria. Si tratta in tutto e per tutto di uomini pesce, con scaglie, colorito blu e capacità di nuoto quasi sovrumana, oltre che di apnea infinita, ma incredibilmente, a dispetto della loro storia ancestrale, questa peculiarità verrà scoperta dal protagonista solo nel corso dell’avventura.
Butta subito male. Un mostruoso drago marino attacca la città. Anche se lo si sconfigge e ci si riesce ad appropriare del tesoro che cela nella pancia (nella pancia?), si riceve dal sovrano Drov Mella (i nomi singolari sono un altro tormentone) il noioso compito di sorvergliarlo; voci di scorrerie di pirati in arrivo turbano la pace, un fratello viene giustiziato come assassino, un altro ricercato come ladro del tesoro di cui sopra. Insomma, un disastro.
Alla fine, a Udoria arrivano pirati falsi che pure infliggono ferite vere alle persone e alla città, mentre i pirati in carne e ossa attaccano la vicina città di Dakoun, alla quale si può arrivare in centomila modi diversi e avendo appreso o meno la notizia del pericolo incombente. Là si andrà a cercare il maestro Shemrahn che, nelle ultime pagine, promette “faremo grandi cose” a Fanwyr e dà appuntamento al sequel: un rendez-vous che nessuno, però, rispetterà.
Bisogna chiarire bene che la storia riportata in sintesi non rende affatto giustizia alla straordinaria ampiezza di situazioni che si potrà affrontare in questo librogame e che, a ben vedere, costituisce il principale punto di forza, che rende l’opera rigiocabile anche più di una volta, spingendo a chiudere un occhio sui difetti che pure ci sono.
Gli stessi eventi possono essere vissuti da più punti di vista a diversi gradi di positività o negatività. Inoltre, a dispetto della già citata struttura lineare, c’è almeno un bivio nella trama che porta a giocare o non giocare due macro-situazioni completamente differenti: una missione stealth in esplorazione o una più politica in casa, a loro volta entrambe con grandissime possibilità di esplorazione.
Una volta metabolizzata l’ambientazione fantastica ci si muove più a proprio agio nei panni di Fanwyr, di cui si imparano ad apprezzare gli slanci istintivi, che non sempre pagano, e la generosità e il senso dell’onore che costituiscono le principali doti di fondo di un protagonista sostanzialmente azzeccato.
Il sistema di gioco mostra, come si accennava, delle asperità. Il regolamento lo presenta, anche con una certa sfumatura di orgoglio, come un librogame dove non è previsto l’uso di dadi, ma la peculiarità di rinunciare all’influenza della sorte richiede il suo giusto prezzo. I confronti di abilità per combattere o sbrogliare situazioni vengono effettuati, infatti, su parametri fissi, non influenzati dai dadi, e questo comporta numerosi effetti, quasi tutti negativi.
Primo, ciò riduce la suspence avendo immediatamente la possibilità di sapere, una volta memorizzate le proprie statistiche, se si è fallita o superata la prova di turno. Secondo, rende il personaggio quasi onnipotente una volta intuita la ripartizione più adeguata dei punti di abilità complessivi a disposizione, tali da spingere a costruirsi un Fanwyr forzuto, fainesco o intelligentone, piuttosto che cercare un equilibrio.
Terzo, costringe a sperare nella scoperta, in verità fin troppo rarefatta pur a dispetto della grande varietà citata prima, di armi o artefatti magici che possano dare uno straccio di influenza alle immutabili cifre delle caratteristiche personali. Né sembra sfruttata al meglio, pur a fronte di un’esplorazione estesa del volume, la possibilità, prevista su carta, di consentire delle “ricerche” di materiali utili o preziosi con un sistema ingegnoso, concessa dal regolamento ma poco sfruttata.
Una notazione linguistica. Le prove di difficoltà sono ripartite in vari livelli numerici da 1 a 15 e vengono come ovvio superate quando nella caratteristica chiamata in causa si possiede un numero maggiore o uguale al massimale di quel livello, e viceversa fallite. Ma se in italiano ha senso affrontare una prova chiamata di livello “elementare, facile, normale, difficile, eccezionale, miracoloso”, certo più straniante è quando viene richiesto di ottenere una “forza di livello difficile”: ci voleva più acutezza nella scelta dei sinonimi.
Beghe, queste del regolamento, che non possono che generare un’ombra dovendo procedere a una valutazione complessiva.
Longevità 7.5:
Non mancano i bivi con tre o quattro scelte che lasciano passare molto tempo e tante avventure prima che la trama si ricongiunga al filone principale. E l’inventiva di Headline raggiunge picchi così astrusi che fa venire la voglia di andare a ritrovarli e giocarli tutti.
Difficoltà 6.5:
Una volta abituati al sistema di gioco, le insidie diminuiscono rapidamente e si riducono a qualche prova di livello eccezionale che magari si può superare con una caratteristica sì e un’altra no. A quel punto, è più divertente da leggere come un’avventura a bivi semplice che da giocare.
Giocabilità 6.5:
La somma di pregi e difetti rende l’opera alla portata di tutti, ma con qualche granello che inceppa il meccanismo e impedisce di rasentare i livelli più alti di questo genere di narrativa.
Chicca:
Eccezionale Headline quando, come già in altre sue opere, mette alla prova l’imbecillità del lettore: se per evadere cercate di dare fuoco alla cella in cui siete rinchiusi, o se per liberarvi di un mostro decidete di affondare la barca su cui solcate gli oceani, l’esito non potrà che essere uno solo...
Totale 7:
Un’opera non “leggendaria” ma neanche “malefica”, che presenta una bella varietà di racconto e propina sfide quasi sempre interessanti. Avrebbe meritato un sequel.
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