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L’esordio a bivi di Kurolily! Un adolescente approda su un’isola deserta in circostanze travagliate, in procinto di vivere la più grande scorribanda della sua vita. C’è un innegabile filo conduttore che in quasi mezzo secolo lega - a partire dalla trama - il primo librogame della storia, “Avventure nell’isola” di Edward Packard del 1976, a quello che - almeno a livello evolutivo - potremmo definire “l’ultimo”: “L’isola maledetta” di Sara “Kurolily” Stefanizzi (Fabbri Editori, 160 paragrafi, 15,90 euro). Un volume che chiude il cerchio che da sempre connette i librogiochi ai videogiochi, portando la più importante streamer e creatrice di contenuti d’Italia del settore videoludico a misurarsi con le storie a bivi che pure tanto ama.
Un libro che - lei stessa non ne ha fatto mistero - sulla scorta delle sue intuizioni e decisioni è stato, tuttavia, scritto concretamente da una ghost writer: la scrittrice Ilaria De Togni, inserita come “collaborazione ai testi” nel colophon. Ma tale e tanta è la riconoscibilità come pure l’attrattività del brand Kurolily, che il nome della firmataria campeggia a dimensioni maggiori e font più visibile rispetto addirittura al titolo dell’opera: un caso unico nella piccola grande storia di questo mezzo.
Il collegamento iniziale con l’opera prima di Packard è solo una suggestione, ma finisce inesorabilmente dentro il calderone di tutte le commistioni che fanno parte di questo volume per precisa scelta della sua demiurga: un mix di rimandi a opere letterarie, informatiche e così via che ogni buon conoscitore di cultura pop degli ultimi trent’anni non potrà che riconoscere. Non serve andare troppo lontano per identificare i retaggi dei vari Monkey Island, né una parodia dei miti di Cthulhu, ma sono solo due esempi: ce ne sono a bizzeffe.
Protagonista sei tu, esordisce così questo libro, tanto per ricollegarsi agli storici predecessori EL. Ma spicca subito, a livello visivo, un ricorrente “il/la” che vuol garantire piena inclusività ai lettori di ogni genere. Giusto anelito, ma poco raffinato tipograficamente: tanto più che l’interprete principale dell’opera non è generico ma dichiaratamente donna, o meglio ragazza, Lilyen. Alla luce di ciò, più che al personaggio l’uso del multigenere pare rivolgersi al lettore, di volta “esausto/a”, “imprigionato/a” e così via: una soluzione un po’ infestante che spezza la lettura e toglie un filo di immedesimazione.
Una piratessa, incredibile a dirsi! Non perché ne manchino esempi a capo di un equipaggio filibustiere nella storia e nella letturatura; eppure, dall’altra parte, secondo quanto giunto fino a noi, molte versioni del codice piratesco non ammettevano la presenza a bordo di donne. Qui l’elemento femminile non solo è presente, ma assurge addirittura a cardine della vicenda. I tempi cambiano, e per fortuna viene da aggiungere.
Non c’è prologo, ma dalla pagina 1 si viene subito lanciati in medias res, dopo una lesta spiegazione del regolamento, basico e abbastanza funzionante. Non è presente un vero e proprio registro, ma sono state lasciate delle pagine in fondo per prendere appunti: in particolare del numero di morti e del proprio inventario, quest’ultimo usato blandamente. La presentazione del personaggio e la precisazione di alcune dinamiche ludiche avvengono sempre in corso d’opera, con un meccanismo in alcuni casi raffinato: quello di evocare ricordi che aggiungono pezzi attraverso gli effetti evocativi del rum oppure nella lettura malinconica di un diario.
Proprio come “Avventure nell’isola” e i suoi nipotini, questo libro presenta un’unità di paragrafo per ogni pagina, al termine della quale ci sono rimandi obbligati oppure la scelta tra più possibilità. La struttura del librogame è sostanzialmente lineare: ci sono delle tappe da raggiungere una dopo l’altra per venire a capo dei misteri dell’isola, ma spesso su questa direttrice si innestano grappoli anche copiosi di paragrafi, che costituiscono opportune variazioni sul tema per aumentare la longevità e le emozioni. Non manca qualche snodo del tutto alternativo che porta su vicende diverse, ma a lungo andare il ricongiungimento è inevitabile.
Lilyen è giunta a terra su una scialuppa, apparentemente unica superstite dall’affondamento della nave Speranza, agli ordini del capitano Vincent. La morte di quest’ultimo e il naufragio vanno ascritti al temibile pirata fantasma Mc Murray, chioma corvina, cappellaccio e volto scheletrico (ogni riferimento a LeChuck è totalmente voluto), e alla sua ciurma di spettri. La vendetta è alla portata, sulla spiaggia spunta anche l’unica arma in grado di nuocere al villain: la spada di Black Water. Ma metterci le mani sarà più complicato del previsto.
La trama prende le mosse proprio a partire dall’esplorazione dell’isola. Nel percorso si incontreranno personaggi di taglio stereotipale ma abbastanza ben caratterizzati, dal gigante Mimir alla strega Esmeralda, dal lucertolone Tombino al roccioso Godron, fino al polipesco Citulù, emulo della più famosa creatura lovecraftiana. Tutto conduce al gran finale e al duello decisivo con Mc Murray, che verrà combattuto attraverso le sole scelte a bivi: questo porta a un true path inesorabilmente stretto per spuntarla e approdare al finale perfetto.
La conclusione sarà aperta, strizzando un occhio al possibile secondo capitolo: Lilyen si imbarcherà con una ciurma di piratesse in cerca di nuove avventure, facendo definitivamente carta straccia del citato codice e della sua norma anti-femminile di stampo “patriarcale”.
Tantissime sono le instant death, che arrivano dopo scelte improvvide o sfortunate e vanno a costituire una vera e propria feature del gioco, appunto alla stregua dell’opera primordiale di Packard e dei successivi “Scegli la tua avventura” o meglio ancora degli “Choose Cthulhu” che costituiscono la dichiarata fonte di ispirazione di Kurolily in termini di desiderato gameplay. Ognuna di queste morti è caratterizzata da una parola chiave, un singolo aggettivo che spiega “come” il lettore è defunto. Le prime due - per gentile concessione dell’autrice - si possono ignorare, legalizzando il classico “baro”: alla terza, si deve ricominciare daccapo.
Altra peculiarità di queste traumatiche sezioni finali è che l’autrice presenta sempre una spiegazione razionale del perché si sia giunti alla conclusione anticipata dell’avventura, evocando, anche qui, una struttura che affonda le sue radici addirittura negli anni Sessanta: quando i primissimi libri a bivi, da “State of Emergency” in giù, e prima ancora i manuali pure a snodi di “apprendimento programmato” su attività pratiche e questioni professionali, in caso di scelta errata fornivano motivazioni e correzioni di quell’errore.
Nei bivi spesso le scelte possono essere compiute sulla base di ragionamenti e indizi precedentemente appresi, come vuole il corretto canone di progettazione dei librogame moderni. In altre opzioni, tuttavia, emerge qualche piccolo peccato di gioventù: le possibilità sono alla cieca, oppure, al contrario, scontate, o ancora equivalenti, portando a medesimi effetti e destinazioni, in rari casi perfino in pagine consecutive sicché l’inutilità della selezione compiuta viene facilmente svelata.
Ad arricchire il volume, una decina di illustrazioni in bianco e nero di Mario Del Pennino, di taglio giovane e accattivante, appropriato rispetto ai toni dell’opera; l’apparato illustrativo viene completato dai riempitivi nei paragrafi più brevi e dalla bella copertina a colori.
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Nota sulle valutazioni: nella “Longevità”, chi scrive dà un giudizio di quanto sia ben progettato il librogame in modo da essere giocato più volte, con nuovi percorsi e scenari e la possibilità di svolgere più partite senza esaurire filoni narrativi e ludici. La “Difficoltà” stima quanto sia complessa un’opera tra gioco e snodi: più il voto sale, più sarà complicato approdare alla fine. La “Giocabilità” è la summa di un sistema di gioco ben funzionante e non oppositivo verso il lettore e di una storia ben scritta e priva di errori. La “Chicca” accende una luce su uno o più aspetti con un punto di vista curioso, singolare o spesso simpatico. Il “Totale”, infine, non è una media delle tre votazioni precedenti (sebbene raramente vi si discosti troppo), ma un giudizio complessivo tarato anche sui gusti personali, sensibilità e fascinazioni del recensore.
Longevità 7:
La struttura del libro porta a esaurirne i segreti in non
più di un paio di run; non mancano, comunque, alcune strade alternative che
fanno tornare la voglia di rivestire i panni di Lilyen.
Difficoltà 7:
Le sfide non sono bloccanti per librogamer esperti: molto più arduo sarà trovare la strada giusta quando a ritmo serrato vengono proposte una serie di scelte affilate, dagli esiti fatali, senza troppi indizi per valutare tutte le situazioni.
Giocabilità 7.5:
L’assenza di un vero e proprio sistema di gioco consente di concentrarsi soprattutto sugli aspetti narrativi, molto ben resi, e far scorrere placidamente l’avventura alla stregua di un videogame punta e clicca.
Chicca:
A proposito di causalità e casualità nei librogame, la instant death di pagina 15 lo ammette proprio apertamente: sei morto/a, ma non c’è un motivo particolare per cui ciò sia avvenuto o una certa scelta sbagliata che lo abbia determinato. Si tratta di pura sfiga, una dipartita da “innocente” come dice la parola chiave. Piccola carognata esemplificativa degli scherzi del caso - dinamica centrale nella vita reale non sempre trasposta in un libro a bivi - che viene addolcita da un bonus rinascita extra.
Totale 7.5:
L’opera va valutata nell’ottica di un target generalista, non di lettori appassionati, esperti e incarogniti del librogame. Con questa “lente” si può ovviare a qualche difettuccio già citato e godersi piuttosto lo spirito e l’atmosfera del mondo piratesco immaginato da Kurolily. Se avrà un’ampia diffusione grazie al nome dell’autrice - che secondo quanto appreso si è battuta con l’editore che le commissionava un semplice romanzo lineare per dare invece alle stampe un’opera interattiva - avrà svolto più che egregiamente il suo compito, e magari ritroveremo Lilyen in un sequel più maturo.
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